giovedì 21 ottobre 2010

Aziende che assumono i figli dei dipendenti (per contratto)

Quel bravissimo giornalista che è Massimo Gramellini ha scritto un bel pezzo su La Stampa di oggi in cui critica con ironia corrosiva il fatto che "L’Unicredit si è impegnata con i sindacati a privilegiare le assunzioni dei figli dei dipendenti".

Che l'idea che per essere assunto da un azienda basti essere figlio di un dipendente sia anacronistica, non liberale e contro ogni forma di mobilità sociale è evidente e non mi dilungherò.

C'è qualcosa, però, che mi sembra altrettanto grave a livello sociale perchè un mondo del lavoro del genere non fa altro che alimentare l'odioso fenomeno dei bamboccioni. Stiamo parlando di ragazzi che non hanno bisogno di porsi degli obiettivi, che non si sa quando capiranno che il mondo è un po' diverso da quel microcosmo che ruota intorno alle loro famiglie, che non sapranno gustarsi il fascino dell'ignoto del diverso e che non sapranno, non dico costruirsi, ma neppure immaginarsi un vita diversa da quella che si sono abituati a vedere.

Il processo è ineluttabile: me ne sto sereno in casa fino alla laurea, poi senza pena me ne vado al lavoro nella azienda dove ha lavorato papà. Con i colleghi di papà pronti a blandirmi e il mio capo che al primo giorno mi dice con rassicurante complicità "ma lei è il figlio del dottor Rossi, persona squisita suo padre me lo saluti". Tutto liscio, tutto semplice.

Francamente non vorrei che le mie figlie seguissero un percorso del genere. Vorrei che potessero vivere una vita loro, che facessero tante esperienze, le vorrei vedere cambiare e crescere grazie - anche - alla contaminazione di ambienti esterni alla nostra famiglia che loro avranno scelto. Vorrei che imparassero a scegliere e quindi a misurare soddisfazione o frustrazione con il solo parametro della realizzazione dei loro progetti e desideri.
E se prenderanno qualche schiaffone allora avranno sempre i loro genitori dai quali tornare per essere consolate. Ma attenzione, ho detto tornare.

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